Quello che preferisco dell’arte romana sono senza dubbio i ritratti. E non quelli, idealizzati, di epoca imperiale, dove c’è sempre di mezzo una certa idea di super-uomo al di sopra di tutto e tutti, ma i ritratti di epoca repubblicana, quelli dove non si fanno sconti: se uno ha il naso lungo, la testa pelata, le zampe di gallina o il mento sporgente…bè, viene raffigurato proprio così. La ragione sta nel fatto che quei ritratti devono rappresentare quelle persone così com’erano, ed ogni ruga, ogni capello in meno, ogni espressione accigliata o severa rappresenta la storia di quell’uomo – o di quella donna, anche se le quote rosa sono all’epoca in netta minoranza – e della sua famiglia. Ed ecco perché questi ritratti venivano esposti nella parte pubblica della casa romana, in una sorta di albero genealogico che doveva tramandare la gloria di quelli che si erano distinti in politica o sul campo di battaglia o, perché no, in entrambe le cose. Ed ecco perché poi in occasione di ogni funerale quei ritratti diventavano protagonisti del corteo che accompagnava il defunto, in modo che tutti coloro che assistevano alla cerimonia potevano ben comprendere l’importanza di quella gens, e riconoscere quelli che ne avevano fatto la storia. Potenza di una ruga.