Era la Pasqua del 1603 quando a Roma, nella chiesa del Gesù, si scopre la grande tela della Resurrezione (oggi quasi completamente perduta) di Giovanni Baglione. Immaginiamo che nella folla presente ci sia stato anche Caravaggio, curioso di vedere cosa quel pittore, per lui detestabile e oltretutto buono a nulla, avesse combinato. Passa qualche tempo e per le strade, nelle botteghe, nei palazzi signorili cominciano a circolare delle rime non propriamente edulcorate che si fanno beffe di Baglione e del suo quadro. Ora, lasciando alla fantasia di ognuno la troppo facile rima con Baglione, l’inizio di una di queste poesie recita: “Gioan Bagaglia tu non sai un ah/le tue pitture sono pituresse/volo vedere con esse/che non guadagnerai mai una patacca”.
Considerati anche i pessimi rapporti che aveva con Caravaggio, Baglione non può fare a meno di pensare che sia stato proprio lui l’autore di queste frasi ingiuriose, tanto da decidere di citarlo in giudizio. Fortuna ha voluto che i documenti di questo processo si siano conservati, dandoci la possibilità di conoscere dallo stesso Caravaggio quella che è la sua personale concezione dell’arte, che in una frase condensa libri e libri di storia dell’arte. Alla domanda dei giudici su cosa significasse per lui essere un buon pittore, un valent’huomo, infatti il Merisi rispose: “quella parola valent’huomo appresso di me vuol dire che sappi far bene dell’arte sua, così un pittore valent’houmo, che sappi depinger bene et imitar bene le cose naturali”.