Molte erano nell’antica Roma le occasioni per fare baldoria e godersi qualche bello spettacolo, basti pensare alle corse del circo Massimo o agli spettacoli al Colosseo, oppure alle gare atletiche dello stadio di Domiziano. Quelle che però superavano di gran lunga tutti questi giochi in fasto e magnificenza erano le cerimonie trionfali, quelle che salutavano i generali vittoriosi di ritorno da una guerra: tra quelli che gli antichi descrivono meglio c’è forse quello di Lucio Emilio Paolo, vincitore dell’ultimo re di Macedonia, celebrato nel 167 a.C. Una festa che dura ben tre giorni, durante i quali viene mostrato ai romani il bottino di guerra fatto di statue, dipinti, armi, monete – per contenerle tutte servono addirittura settecentocinquanta vasi – coppe e tazze, ma anche prigionieri e lo stesso re con i suoi figli, portati in città come schiavi. Solo alla fine del lungo corteo fa la sua comparsa il trionfatore: “ed ecco arrivare lui, Emilio, montato su un cocchio splendidamente addobbato. Era avvolto, in un manto di porpora ricamato d’oro e protendeva nella mano destra un ramo d’alloro. Così tutto l’esercito che seguiva il cocchio del generale diviso per reparti e corpi d’armata reggeva rami d’alloro, e una parte dei soldati cantava certe canzoni tipiche dei trionfi, in cui sono frammisti lazzi all’indirizzo del generale”. Il trionfo portava poi il corteo sul Campidoglio dove, di fronte al tempio di Giove Capitolino, si svolgeva un sacrificio che sanciva la fine della cerimonia…ma non certo della festa.