Se potessimo scegliere una cosa, una cosa sola della pittura di Caravaggio, e indicarla come rivoluzionaria, quale sarebbe? Certamente potrebbe essere la luce e il modo in cui viene usata (sia quella naturale che quella divina), oppure quella sua religiosità così intima e nuova rispetto a quella così roboante della seconda metà del Cinquecento, ma anche la necessità di aver di fronte a sé sempre il modello, e rifiutare categoricamente di dipingere "a memoria"; ecco, questo ci porta verso la novità - tecnicamente - più importante dell'arte di Caravaggio. Ce lo racconta il marchese Giustiniani, collezionista e grande estimatore del pittore, che in una lettera scrive "tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure": ecco, ora sembra una pochezza, una cosarella da nulla, ma per l'epoca è davvero una scelta avveniristica, che spazza via la classificazione per generi e soggetti con la quale allora si usava suddividere il fare pittura, e gli permette di dare dignità di capolavoro a opere come la fiscella della pinacoteca ambrosiana di Milano o, se vogliamo rimanere in ambito romano, al ragazzo con la canestra di frutta della Galleria Borghese, dove la cesta sontuosa fa passare quasi in secondo piano il giovane che la tiene tra le braccia. Il quadro è uno di quelli che Caravaggio dipinse quando era ancora a bottega dal cavalier d'Arpino, e che arrivò a Scipione Borghese grazie al sequestro dei beni al quale il povero pittore era stato condannato a seguito dell'accusa (del tutto arbitraria) del possesso abusivo di alcuni archibugi. Il fine giustifica i mezzi, qualcuno avrebbe detto...e se il fine era mettere le mani su un Caravaggio, allora per Scipione ogni mezzo era lecito.