A mia discolpa posso dire che era caldo, che volevo qualcosa di leggero per non dover pensare davvero a nulla, nemmeno a star dietro alla trama di un film. Però, ecco, queste sono tutte le giustificazioni che riesco a trovare: per il resto è tutta mia la colpa di aver scelto di vedere un film in cui Roma (e pure Firenze: poteva mancare Firenze?) è un coacervo di stereotipi, in cui i rampolli di buona famiglia si divertono a correre in auto e perdersi nei meandri di luoghi pubblici incuranti dei divieti, in cui tutti sono vestiti di lino d'estate (e, presumo, di cachemire d'inverno; ma il film si limita all'estate, perché in Italia il tempo è sempre bello), in cui le strade del centro sono piene di bancarelle e di fiori - e di verdura sempre profumata - e in cui la fine del film si indovina alla seconda scena. Ma soprattutto quello che mi ha scandalizzato è veder infilati due poveri maritozzi con la panna in una busta del pane, salire in motorino con gli eroi romantici della pellicola ed arrivare intatti fino a villa Adriana (ebbene sì, in motorino coi maritozzi fino a Tivoli) per essere mangiati davanti al Canopo, evidentemente dopo aver superato le recinzioni della villa. Quei due maritozzi mi hanno riflettere: perché i registi vedono Roma e l'Italia ancora come un grande cliché? Perché c'è cascato pure Woody Allen con To Rome with love? Perché nessun regista hollywoodiano ambienta la sua sceneggiatura al Tiburtino III? E allora forse ho capito che nessuno che venga da fuori riesca davvero a capire Roma, e che per vederla - ben fatta - sul grande schermo bisogna far forse riferimento solo ai registi di casa nostra, dalla Dolce vita di Fellini ai Soliti ignoti di Monicelli. Che, e vi sfido a sostenere il contrario, non hanno mai infilato due maritozzi in una busta del pane.