Mi è apparso in casa da qualche giorno e, vi assicuro, non sono ancora nemmeno riuscita ad aprirlo. Perché certi libri non possono accontentarsi di un'occhiata distratta, io li conosco: poi si
offendono, fanno i preziosi, non si concedono facilmente. E allora, in attesa di leggermelo, lo coccolo: l'ho sistemato sulla copertina (sì, di giorno ci sono trenta gradi ma, alla sera, la copertina
sul divano fa già un certo piacere), lo tengo lontano dai raggi diretti del sole e dall'umidità, e quando faccio colazione è sempre a debita distanza dalla mia tazza di caffè.
Roma, a cura di Michele Smargiassi, fa parte di un'interessante collana di libri fotografici dedicati alle città del mondo: si trova in edicola in abbonamento con Repubblica, ma si può prendere
anche da solo. Ma come fa un libro fotografico su Roma a non essere banale e scontato? Come non cadere nel cliché, limitarsi alla città monumentale o a quella - forse anche peggiore - pittoresca,
fotografare gatti e preti, maritozzi e suorine a spasso?
Perché è vero quello che diceva Henry Cartier-Bresson, "una fotografia non è né catturata né presa con la forza. Essa si offre. È la foto che ti cattura". Ma
dall'altra parte bisogna allora essere pronti a farci catturare: vale per i fotografi blasonati, vale anche per noi, fotografi da strapazzo che ancora discutiamo su quale filtro Instagram sia
migliore. E allora anche io, in attesa di tirar fuori dal telefono una foto che sia davvero buona, studio dai maestri. Stasera apro il libro.